“IN CAMMINO: Le Incredibili Avventure Di Un Missionario A Caccia Di Anime In Sud Africa [1937 – 1951]“, Giuseppe Sante Bellò Marcolini — OPPIS PLANET EDIZIONI
ERA L’ANNO 1920, il mese e il giorno non hanno importanza. La piazzetta del popolo di Valroverina (abbreviativo Valrovina) era quasi completamente occupata da una moltitudine di gente allegra e rumorosa che riempiva tutti gli spazi, a casaccio, e si muoveva con gli accordi di una banda di guerra, portata dalla vicina città di Bassano del Grappa, evocatrice di musica ed inni che soldati e popolo cantavano durante i giorni cruciali del conflitto bellico 1915-18, da poco terminato.
La banda fece, ad un certo punto, una parentesi nel repertorio musicale, eseguendo la marcia reale e ciò fece immobilizzare tutti i presenti. Un’ondata di ricordi, di sofferenze, di spaventi, di atti valorosi, di esaurimento e di morte passò nel cuore e nella mente dei “reduci”, delle madri, delle spose e dei presenti, allo scorrere delle note marziali.
Qual era il motivo di una così vistosa moltitudine? In quel momento non lo capivo; lo avrei capito in seguito. Una voce sonora, pastosa di baritono, nel silenzio che seguì l’inno nazionale, riassunse quei tre tragici anni, esaltando il valore eroico di questo o quel reggimento, nel quale avevano militato molti dei “ritornati” e quelli che non erano tornati perché caduti nel campo dell’onore. Gli ex-soldati presenti ricevevano, con una forte stretta di mano da parte del sindaco, una distinzione al merito di guerra.
Io allora avevo cinque/sei anni. Ero presente a questa manifestazione con la mamma e i miei fratelli. Il papà era morto nell’agosto del 1916 durante un assalto e conquista di una montagna nel cordone montano del Carso, Gorizia. Era soldato del battaglione alpini di Bassano del Grappa. Con alcuni altri (39) era il grande assente in questa chiassosa cerimonia. Alcune lacrime mi cadevano dagli occhi, fiumi da quelli della mamma. “No!” dicevo a me stesso, “papà non é assente, ci siamo noi” e papà si fece presente per mezzo della voce del sindaco, fra un silenzio di morte della gente.
“Maria Marcolin in Bellò”, grido la voce, “Avanti!”. Poi gridò i nomi di ognuno di noi, i suoi figli. Una fiammella di orgoglio entrò in me, elettrizzando la mia piccola persona.
In quel momento non piangevo. Mi sentivo un uomo. Salii sulla pedana con mia madre e i miei fratelli. Da lì guardavo la moltitudine che misurava la mia nuova coscienza di piccolo uomo.
La mano del sindaco appuntò una medaglia di bronzo sul petto di mia madre, che non smise mai di piangere e dei fratelli maggiori, dei quali non ricordo le emozioni. Quando arrivò il mio turno mi raddrizzai, seguii i movimenti delle mani dell’Autorità sul mio petto contemplando inorgoglito quella medaglia che mi ricordava mio padre, mi parlava di lui, del suo valore e del suo glorioso sacrificio. Ero più felice che triste, quando scesi dalla pedana seguendo mia madre che non volle più cerimonie e soffocò tutto il suo dolore nel silenzio della sua casa.
Cosa sarà successo a quella medaglia da quel giorno? Ho sempre pensato ad essa negli anni seguenti senza incontrare una risposta. Questa è morta per sempre con mia madre.
In verità valeva quel metallo il prezzo di una vita di padre e sposo? Colmerebbe i giorni, r mesi e gli anni di una vedova e l’abbandono di quattro piccolini?
Avevo, come ho già detto, cinque o sei anni; mio fratello più piccolo quattro, i due maggiori otto e dieci rispettivamente; la mamma ventinove. Formavamo una casa distrutta, una famiglia a pezzi per colpa della guerra. Per quanto la mamma si sforzasse di circondarci d’affetto, di sacrifici e cose belle, mai più ritornammo ad essere completamente felici!
Quell’uomo gagliardo, che in un giorno di licenza in casa sua, cingeva con le sue braccia il fine corpo della sua sposa e madre dei suoi figli, sussurrandole parole d’amore, di coraggio e di speranza in un prossimo e definitivo incontro, non tornerebbe più…
Le mie parole di “Babbino, babbino, torna presto a casa”, gridate durante interi giorni da un angolo del camino guardando la lontana catena andina del Grappa, che si prolungava fino al Carso e si perdeva nell’ampio vuoto dello spazio, affondavano, lo seppi poi, il coltello lacerante del dubbio e della solitudine nel cuore della mamma.
Cosi la mia Vita si aprì ad un futuro senza padre, senza un dialogo fra uomini, senza la compagnia che avrebbe completato la donna nella mamma e la parte maschile nei figli. La mia vita fu dominata da allora da un’ombra che mai sarebbe arrivata a decollare in forma chiara, autentica e definita: mi feci bambino poi giovane uomo, sognatore, insicuro, indefinito…
Cosa può fare la società per un’infanzia o per centinaia di migliaia di infanzie spezzate dalle proprie mani assassine?
Tremendo problema degli uomini, sempre reale ed irrisolto!
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Leggi i capitoli precedenti:
* [IN CAMMINO] Prologo